“The end of men” è un recente libro scritto dalla famosa giornalista americana Hanna Rosin. Il libro rispecchia quanto sta accadendo nella società contemporanea ed, in particolare, la voglia e la capacità delle donne di poter fare tutto da sole – buoni ultimi i figli, come hanno dimostrato le varane dello zoo di Londra che, messe in un recinto lontane dagli aggressivi maschi, si sono riprodotte da sole, facendo nascere solo cuccioli di sesso maschile.
L’evoluzione della figura femminile va di pari passo con –si potrebbe dire l’involuzione, ma non sarebbe giusto- il cambiamento di quella maschile. E’ nata, infatti, la figura del “mammo” o, più tecnicamente, del “casalingo”. In Italia sono circa 5.800 i tesserati dell’Associazione uomini casalinghi; uomini che lavano, stirano, si impegnano a mandare avanti la casa mentre la moglie è al lavoro. Ma, questo, è un dato parecchio marginale rispetto a quello Istat: il numero vero di casalinghi italiani è pari a 78 mila, con un aumento di circa 20 mila unità rispetto a soli due anni fa. Le casalinghe, invece, di contro, sono diminuite di circa 300 mila unità ogni anno, dal 2010, raggiungendo la cifra complessiva di circa 4 milioni oggi.
Ma, cosa fa davvero un casalingo, oltre a togliere la polvere dagli scaffali e a destreggiarsi ai fornelli? Certamente, la cosa più ovvia e, al contempo, la più difficile: ovvero crescere i figli.
In Italia, in verità, i “mammi” sono pochissimo aiutati: il congedo di paternità vero e proprio è ridotto ad un solo giorno e deve essere dichiarato almeno 15 giorni prima; scelta non facile perché se si vuole farlo coincidere con il giorno esatto di nascita, la previsione non può essere tanto precisa.
Negli altri Paesi europei, ovviamente, non è così: in Inghilterra il vecchio sistema edoardiano è totalmente e recentemente cambiato con una rivoluzionaria “paternità” equiparata praticamente alla “maternità” anche se il sussidio è praticamente nullo; in Francia Hollande vorrebbe arrivare a tre anni di congedo da ripartirsi tra i due genitori, garantendo così un coinvolgimento certo anche del padre; in Germania si può arrivare a 12 mesi al 67% della retribuzione; in Norvegia anche 12 settimane al 100% di retribuzione ed in Svezia più di un anno all’80%. In tutti i casi è prevista una suddivisione del congedo tra madri e padri. E si legge spesso di padri americani, con posizioni lavorative invidiabili, che si licenziano per seguire i primi mesi –o addirittura anni- di vita dei figli.
La verità è che la mentalità della donna angelo del focolare e dell’uomo che porta a casa la “pagnotta” è durissima a morire in Italia e, per la maggior parte, i casalinghi succitati lo sono perché senza lavoro o in difficoltà economiche e non per scelta come avviene altrove. E, certo, le regole sul congedo non aiutano… (non le madri, al 30% dello stipendio per i primi sei mesi di congedo, figuriamoci i padri…). Sicchè, prima che i neonati si trasformino in piante da coltivare per alimentare i mostri di Matrix o che i padri fuggano verso lidi esotici al grido di “Chiamatemi Ismaele”, sarà bene che qualcuno si interroghi se è il caso di iniziare una qualche riforma adatta alla bisogna.
Francesca Mignosi
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