L’ORRIBILE EPILOGO DEL CALCIO ITALIANO - 26/06/2014 - SIMONA
Ci risiamo. Come già avvenuto in un passato, neppure tanto lontano, la società italiana si è ritrovata a discutere di un problema sociale, la violenza, innescato da un momento sportivo, il calcio. Nonostante la contraddizione, lo sport negli anni si è dimostrato sempre più spesso terreno di scontri e lotta aperta, come se si dovesse scendere in guerra e non a praticare quello che è stato definito il gioco il più bello del mondo. Perché di contraddizione si parla: il calcio è uno sport di squadra nato per unire, non certo per dividere. L’ultima tragica vicenda riguarda un giovane tifoso napoletano, Ciro Esposito, ferito in un agguato il 3 maggio scorso a poche ore dalla finale di Coppa Italia allo stadio Olimpico di Roma fra Fiorentina a Napoli. Il giovane di Scampia venne raggiunto da colpi di pistola partiti da un gruppo di “tifosi” romanisti di estrema destra nei pressi dello stadio ed è morto dopo cinquanta giorni di agonia al Policlinico Gemelli. Una morte, quella del giovane tifoso del Napoli, che incarna anche quella del calcio italiano. Perché non si può morire per una partita di calcio, non si può perdere la vita mentre ci si incammina verso lo stadio per veder giocare la propria squadra. Non ha senso e questo non dovrebbe succedere mai più. Ma è inutile nasconderci dietro false ipocrisie, l’augurio è che davvero simili episodi non si ripetano; nella consapevolezza che, purtroppo, ci saranno altri Ciro Esposito. La storia ci parla di ventidue morti in cinquant’anni di violenze: questi i numeri delle vittime del calcio, da Plaitano, colpito dal proiettile di un poliziotto nel 1963, alla morte del giovane ventottenne spirato ieri all’alba. Temendo nuovi scontri, dopo la diffusione del peggioramento delle condizioni di Ciro lo zio aveva lanciato un ennesimo appello alla calma: «A nome di tutta la famiglia dico a tutti: basta violenza». «Vogliamo giustizia - ha continuato Vincenzo Esposito - non vogliamo che il nome di mio nipote sia usato per altre violenze». Un invito il suo, per dire no al binomio calcio-violenza, per fermare questo circolo vizioso in cui siamo intrappolati, per non rispondere alla violenza con altra violenza. Un appello a riflettere per tutti, dentro e fuori il mondo dello sport. Il calcio non merita tutto quello che è successo a Roma, ancora una volta le istituzioni si sono rivelate incapaci di organizzare una partita e a farne le spese sono state le migliaia di famiglie e di tifosi delusi, accorsi per godersi quella che in principio doveva essere una partita e che si è trasformata poi in una contestazione aperta fino al momento della contrattazione con il capo ultrà della curva partenopea, uno dei momenti di massima decadenza del calcio italiano. Insomma, oltre alla figuraccia che ha fatto il giro del mondo, anche i drammatici risvolti sulla vita di un giovane. Bisogna ripulire il mondo del calcio da tanta efferatezza e fare chiarezza, perché chi va allo stadio con la convinzione di innescare risse con la tifoseria avversaria e per rendersi protagonista di cori che inneggiano la discriminazione territoriale non può essere definito un tifoso. I tifosi romanisti, quelli veri, non c’entrano nulla con l’agguato fuori lo stadio Olimpico, ad aprire il fuoco sono stati solamente dei balordi, dei delinquenti. A detta di molti il mondo del calcio è caduto in un abisso senza fondo dal quale è quasi impossibile riemergere, stretto tra la morsa della corruzione e della violenza, specchio inesorabilmente fedele della nostra società. Eppure, a guardar bene, un pizzico di speranza ancora può esserci, perché tra il lancio dei fumogeni e le svariate manifestazioni di endemica violenza del 3 maggio scorso, una scena ancora riecheggia nella memoria di quanti, davanti alla tv, guardavano scioccati quanto stava avvenendo: due bambini, uno con la sciarpa della Fiorentina e l’altro con quella del Napoli che ridevano tra loro e che si scattavano fotografie. Questo è il calcio, quello sano e pulito, uno spettacolo che va al di la dei colori e delle differenze, che non divide ma unisce, non l’ennesima manifestazione della frustrazione e della violenza della nostra società. 

Simona Rotondi 
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