Una vera e propria discarica a cielo aperto: ecco come si presenta oggi la città più popolosa della Costa D’Avorio. Le ombre delle donne africane che camminano in equilibrio reggendo sulla testa pesanti ceste si stagliano in tutta la loro eleganza in un tripudio di colori, in netto contrasto con le strade grigie e sporche che attraversano, avvolte da maleodorante melma, ricavate tra i cumuli di spazzatura. I bambini giocano seduti a terra tra il lerciume, incuranti degli insetti che li circondano e che si posano su occhi e labbra. Il tanfo è talmente forte che l’aria stessa pare aver acquisito una consistenza più spessa, più soffocante. Questo è lo sgradevole ritratto di Abidjan, dove la numerosissima popolazione vive accalcata ai margini della città nelle bidonville. Le strade sono sommerse di letame, melma e rifiuti di ogni sorta, sostanze che si disperdono e si diffondono nell’aria, esalazioni tossiche altamente nocive. Le persone del posto riferiscono di un odore forte che fa bruciare la pelle e lacrimare gli occhi, provoca nausea e quando piove diventa ancora più persistente. Sempre più persone si stanno ammalando di mali che prima di questo disastro ecologico neanche conoscevano e che adesso stanno strappando alla vita bambini, donne e uomini, giovani e adulti. I decessi continuano ad aumentare e intere famiglie vengono distrutte. Ma a che prezzo tanta sofferenza? Abidjan è solo l’ennesima vittima di un fenomeno ormai noto: i paesi sviluppati rubano le materie prime a quelli poverissimi e poi li riempiono di quei rifiuti tossici che costerebbe troppo smaltire nel loro paese. Agosto 2006: la Probo Koala e il suo carico di veleni attraccano nel porto di Abidjan con a bordo 530 metri cubi di liquami prodotti dalla raffinazione del petrolio tramite sodacaustica e altri agenti inquinanti. L’obiettivo della multinazionale europea Trafigura, leader mondiale del settore degli idrocarburi, è disfarsi illegalmente di quel materiale perché il trattamento dei rifiuti costerebbe troppo. E così una serie di autocisterne scaricano il materiale in diciotto diversi punti della metropoli fra ex discariche, corsi d’acqua della laguna, vicino a case e scuole: una bomba ecologica che avvelena tutta Abidjan. In quegli anni la città era lacerata dalla guerra civile e quindi il rischio di controlli era bassissimo mentre alte erano le possibilità di corruzione: una situazione perfetta per sbarazzarsi dei rifiuti con un risparmio di profitto di 515,690 mila euro. Un ottimo affare per la multinazionale, e a chi importa se questo “espediente per fare economia” ha causato una vera e propria emergenza sanitaria ed ecologica e spezzato vite umane? In fondo non si trattava che di sconosciuti, poveracci comunque già ostaggi di guerre e miseria, destinati alla sofferenza, allora perché non approfittarne? Le conseguenze di cotanto scempio non sono tardate a venire: il nuovo nemico è il linfoma di Burkitt detto anche cancro africano perché si manifesta particolarmente dove la mancanza di igiene ambientale e la denutrizione portano all’abbassamento delle difese immunitarie. E’ l’esposizione a sostanze tossiche come i solventi a favorirne lo sviluppo. A complicare le cose, il paese non dispone dei mezzi e delle strutture sanitarie per fronteggiare l’emergenza: il reparto di oncologia infantile dell’ospedale di Treichville dispone solo di venti posti letto per un paese di venti milioni di abitanti così come i sette oncologi sono i soli in tutto il paese e i farmaci per la chemioterapia vi arrivano soltanto grazie al lavoro di una Ong italiana, “Soleterre”. Il disastro è sotto gli occhi di tutti eppure i veri colpevoli sono rimasti impuniti mentre chi ha pagato e continua a pagare è la povera gente di Abidjan, costretta a vivere tra il lerciume e a morire per colpa di chi ha deciso di avvelenare la sua terra.
Simona Rotondi