Pakistan, 16 ottobre 2014: l’Alta Corte di Lahore ha confermato la sentenza di primo grado del 2010 secondo la quale Asia Bibi, una contadina cristiana del Pakistan, merita il patibolo. Una vicenda che ha dell’incredibile, tanto assurda quanto sostenuta da solide leggi: la donna è stata arrestata nel giugno 2009 e accusata di blasfemia. Ebbene, questo è più che sufficiente per consentire la condanna a morte di una persona in Pakistan quindi, Asia Bibi deve morire. Il giudice ha ritenuto valide e credibili le accuse delle due sorelle di fede musulmana che hanno testimoniato sulla presunta blasfemia commessa da Asia, le stesse donne con cui l’imputata aveva avuto l’alterco e da cui è nato il caso. La donna, che ha cinque figli, ha sempre respinto le accuse dichiarandosi innocente. I fatti risalgono al 14 giugno 2009: Asia Bibi era andata a prendere dell’acqua da un pozzo per ristorarsi dopo il lavoro nei campi e l’aveva offerta alle due donne musulmane che l’avevano aiutata ma loro, indignate, l’hanno accusata di aver inquinato la fonte in quanto infedele e l’hanno denunciata per insulti al profeta Maometto. Cinque giorni dopo il mullah musulmano Qari Muhammad Sallam ha poi formalizzato l’accusa di blasfemia alla polizia.
Ora al marito di Asia non resta altro che fare appello alla Corte Suprema, terzo e ultimo grado di giudizio in Pakistan.
Dopo la prima condanna a morte, per la liberazione di Asia Bibi si era mossa la comunità internazionale ed erano state raccolte più di quattrocentomila firme. Perfino papa Benedetto XVI aveva lanciato pubblicamente un appello in difesa della donna, ma a nulla sembrano valse le proteste per cancellare questa norma che ha fomentato tante violenze e discriminazioni verso le minoranze religiose. Introdotte nel 1982 e nel 1986 con l’intento di proteggere l’Islam e la sensibilità religiosa della maggioranza musulmana, le leggi sulla blasfemia hanno ricevuto una vaga formulazione e vengono applicate arbitrariamente da parte della polizia e della magistratura tanto da trasformarsi in minacce e persecuzioni a danno delle minoranze religiose e degli stessi musulmani. Recita la sezione 295 del codice penale pachistano: “chi con parole, sia pronunciate che scritte, o con rappresentazione visibile, o con qualsiasi imputazione, alludendo o insinuando, direttamente o indirettamente, contamina il sacro nome del profeta Maometto (pace su di lui) è punito con la morte o il carcere a vita, ed è altresì suscettibile di multa”. Insomma, appare chiaro quanto questa norma possa essere impugnata contro chiunque comprometta interessi particolari o sia oggetto di vendetta, proprio come spesso documentato da Amnesty International e da altre associazioni per i diritti umani: le accuse in base alle leggi sulla blasfemia sono fondate unicamente sulle convinzioni religiose o sono formulate per incarcerare persone allo scopo di ottenere vantaggi negli affari o nelle dispute sui terreni e la giustizia è ostacolata dall’atteggiamento di giudici e polizia contro le minoranze religiose. Ma in Pakistan è davvero dura cambiare le cose. Perché le leggi sulla blasfemia hanno solide radici e giocano un ruolo chiave anche nella vita politica. Il Paese nasce da una miscela disomogenea di popolazioni troppo disparate e separate per percepirsi come parte di un unico stato. La mancanza di un senso condiviso di appartenenza nazionale avrebbe trovato un imperfetto surrogato nell'identità religiosa, nella fede musulmana, la cui tutela (sentita come bisogno imprescindibile) risiede nella legge sulla blasfemia.
Simona Rotondi
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